La signoria dei Caracciolo (XVI - XVIII secolo)
Decisivi eventi politico-militari maturavano frattanto a livello generale, determinando, nell'ultimo scorcio del '400, la caduta della dinastia aragonese e la fine dell'indipendenza del regno. In questi avvenimenti Atripalda - sottratta nel 1484 agli Orsini ed in seguito concessa alla regina Giovanna d'Aragona, vedova di re Ferrandino - ebbe, grazie alla sua posizione strategica, un ruolo di rilievo. E proprio ad Atripalda, nell'estate 1501, scoccò la prima scintilla della guerra tra Francia e Spagna per il possesso del Mezzogiorno. Il 19 giugno 1501, infatti, i francesi occuparono Atripalda, scacciandone gli spagnoli e restituendo il feudo a Camillo Orsini. Ma breve fu il dominio francese e dell'Orsini su Atripalda, al cui controllo aspiravano anche gli spagnoli per assicurarsi lo sbocco delle vie che dall'Alta Irpinia conducevano ad Avellino, e quindi a Napoli. Ad un anno esatto dallo smacco subito, i fanti spagnoli del capitano Escalada, muovendo da Montella, attaccarono infatti di sorpresa Atripalda, presidiata da pochi mercenari italiani della compagnia di Giordano Orsini, che, all'apparire degli spagnoli, ebbero appena il tempo di chiudere le porte della città. Ma avendo l'Escalada fatto appiccare il fuoco alle porte, gli italiani ottennero di potersi ritirare ad Avellino. Era l'I 1 giugno 1502. Immediatamente Consalvo di Cordova provvide a rafforzare il presidio di Atripalda con altri 2600 uomini, mentre il D'Aubigny muoveva a sua volta con 4000 francesi e numerose artiglierie su Avellino. Nei giorni successivi i due eserciti vennero più volte a battaglia tra Avellino ed Atripalda, ma sempre con la peggio dei francesi, i quali, provati dalle forti perdite, alla fine stipularono, il 26 giugno, una tregua con gli spagnoli, a cui abbandonarono anche Avellino. Atripalda stette per essere nuovamente al centro dello scontro tra francesi e spagnoli nell'aprile del 1528, quando le truppe del viceré de Moncada e di Fabrizio Maramaldo, in ritirata di fronte all'esercito francese del Lautrec e delle Bande Nere di Giovanni de' Medici, che convergevano da Ariano e da Melfi, posero il campo ad Atripalda. La posizione fu però ben presto abbandonata e gli spagnoli si ritirarono su Napoli, dove sostennero un memorabile assedio. Impadronitisi di Atripalda nel 1502, gli spagnoli confermarono il feudo alla regina Giovanna, nipote di Ferdinando il Cattolico, la quale, il 13 settembre 1512, lo alienò, per 25.000 ducati, ad Alfonso Castriota, discendente del famoso eroe nazionale albanese Scanderberg, che l'anno seguente ottenne il titolo di marchese di Atripalda. Nel 1559, per 60.200 ducati, il feudo venne acquistato dal finanziere genovese Giacomo Pallavicino Basadonna, il quale permutò nel 1564 Atripalda coi feudi posseduti dai Caracciolo nel ducato di Milano. Iniziò così, nel 1564, il dominio feudale della nobile famiglia napoletana su Atripalda, su cui ottenne nel 1572 il titolo ducale, dominio destinato a perpetuarsi ininterrottamente per quasi due secoli e mezzo sino all'eversione della feudalità (1806). Fissala la propria sede ad Atripalda, dove eressero un imponente palazzo dalle sobrie linee rinascimentali, i Caracciolo, circondati dalla loro piccola corte, diedero un cospicuo impulso alla vita locale, da quella economica a quella culturale. Solo nei primi decenni del '600 infatti, Avellino ed il suo ristrutturato castello divennero la residenza principale dei Caracciolo, che neppure allora, tuttavia, trascurarono di soggiornare, per alcuni periodi dell'anno, ad Atripalda. Coi Caracciolo, inoltre, potè realizzarsi l'aspirazione da secoli tenacemente perseguita dagli atripaldesi: l'autonomia ecclesiastica. Passata nel 1581 anche Avellino sotto il dominio dei Caracciolo, questi si adoperarono infatti per eliminare l'antica contesa tra le due città, tra le quali veniva ora a cadere l'ostacolo costituito dall'appartenenza a diverse e rivali signorie feudali. Tra il 1583 ed il 1585 - con una serie di atti pubblici, corroborati dall'assenso pontificio - i canonici avellinesi rinunziarono quindi ai loro antichi diritti sulla parrocchia di Atripalda, che acquistò così finalmente la sua autonomia. Le maggiori e più sostanziali benemerenze i Caracciolo le acquisirono tuttavia nel deciso incremento da essi dato alle attività economiche ed industriali di Atripalda. Un fatto assai importante fu costituito in questo senso dalla costruzione della nuova "Regia strada delle Puglie", nella seconda metà del '500, che valse a potenziare e sviluppare grandemente la vocazione di Atripalda come centro commerciale, specie per quanto attiene il mercato e la sfarinatura dei grani. L'approvvigionamento cerealicolo di Napoli venne da allora, infatti, a basarsi essenzialmente sul grano pugliese e grande importanza, pertanto, assunsero le "dogane" di Avellino ed Atripalda. L'antica dogana atripaldese consisteva in alcuni porticati coperti, ma non chiusi, di proprietà del feudatario, che sorgevano nel centro dell'abitato, sotto i quali il grano trasportato dai "vaticali" veniva scaricato, pesato, contrattato e venduto. Sino alla seconda metà del '500 lo "jus Dohanae" era costituito nell'esazione, a beneficio del feudatario, di quei granelli di grano che cadevano a terra durante la misurata ("scopatura, seu grano di terra"). Ma divenuto Domizio Caracciolo signore di Atripalda, e potenziatosi notevolmente il volume dei cereali in transito, si passò ad esigere, oltre alla vecchia "scopatura", anche la "giummella", una misura corrispondente a quanto contiene il concavo di due mani unite. L'Università ricorse nel 1568 contro l'abusiva innovazione del Caracciolo, ma invano. In seguito, inoltre, la "giummella" fu portata ad una misura e mezza, detta "scumarella", ma ciò nonostante i proventi feudali delle due dogane di Atripalda ed Avellino rimasero notevolmente diversi, pur considerandole entrambe i Caracciolo come "el nerbo mayor", dal punto di vista economico, della loro casata, come si espresse nel 1657 Francesco Marino I Caracciolo. Ad Avellino, infatti, i Caracciolo riuscirono ad accrescere ancor più fortemente il peso gravante su "vaticali" e compratori, di modo che i cereali comprati e macinati ad Avellino costavano mediamente 15 grana in più al tomolo di quelli di Atripalda. Di qui la tendenza, da parte dei Caracciolo, a privilegiare la dogana di Avellino a scapito di quella di Atripalda. Nel 1737, ad esempio, essi pretesero di obbligare gli affittatori di quest'ultima a ridurre la "dogana piena" dagli originari giorni di martedì, giovedì e sabato al solo giovedì, e questo allo scopo di rendere più numeroso il concorso alla dogana di Avellino, e quindi più cospicui i proventi feudali. Di fronte alla decisa opposizione dell'Università e dei cittadini, che temevano la decadenza della tradizionale prosperità commerciale di Atripalda, gli armigeri baronali giunsero a bloccare le strade di accesso alla cittadina, impedendo con violenza e minacce l'affluenza dei "vaticali", commettendo altresì abusi e prepotenze, a scopo intimidatorio, ai danni degli atripaldesi. Ne nacque una clamorosa vertenza giudiziaria, che si concluse nel 1740 con la sostanziale vittoria del principe di Avellino, perché da allora la dogana dei cereali si ridusse al solo giovedì, restando però libero il commercio degli altri generi nel resto della settimana. Va anche ricordato che il grano pugliese non veniva soltanto commerciato ad Atripalda, ma anche sfarinato, grazie alla presenza di numerosi e capaci mulini ad acqua, molti dei quali appartenenti al feudatario, e l'importanza dell'industria molitoria nella vita economica di Atripalda rimase pressoché immutata sino alla seconda metà dell'800. Assai cospicua ed in piena attività fu pure, per tutti i secoli XVI-XV1I1, l'industria del ferro, come conferma il fatto che Atripalda era sede dell'"arrendatore" (= appaltatore) del ferro della provincia di Principato Ultra. Alla lavorazione del ferro, inoltre, i Caracciolo affiancarono quella del rame e della carta, creando all'uopo una ramiera ed una cartiera, che sfruttavano anch'esse l'energia idraulica. Ma l'innovazione di gran lunga più rilevante dovuta ai Carcciolo fu senza dubbio costituita dall'introduzione in Atripalda, come pure in Avellino e Serino, alla fine del '500, dell'arte della lana. Anche in questo nuovo settore produttivo l'energia idraulica ebbe un ruolo fondamentale e decisivo. All'antico sistema della follatura dei panni coi piedi e coi pestelli di legno si sostituì ora, infatti, la gualchiera idraulica, la cui azione era molto più rapida ed energica. Un grande asse mosso dalla forza dell'acqua, ruotando, metteva in opera dei grandi martelli a sagoma dentellata, che, ricadendo pesantemente sul panno, lo comprimevano e facevano muovere su se stesso. I panni così follati, ed imbevuti altresì di soluzioni alcaline, saponose ed acide, raggiungevano il grado di feltratura desiderato. Seguiva poi l'asciugatura al "tiratoio", su traverse di legno, operazione questa assai importante per la buona confezione del panno, e che occorreva compiere in ambienti molto ampi ed arieggiati, dato che ogni "pezza" di panno era lunga alcune decine di metri. Veniva successivamente effettuata la cardatura, che consisteva nel sollevare le fibre superficiali del tessuto, in modo da dare al panno consistenza più piena, lanosa e soffice. La cimatura, a sua volta, consisteva nella riduzione ad egual livello della lanosità superficiale del panno, mediante speciali forbici e coltelli. Il panno, infine, riceveva la marcatura presso l'apposito stabilimento dei Caracciolo a Pianodardine. L'arte della lana, che occupò, sino alla fine del '700, nelle varie fasi della lavorazione, la maggioranza della popolazione attiva di Atripalda, ebbe nuovi "Statuti" nel 1692, secondo i quali sarebbe stato d'ora in poi eletto un "console", destinato a restare in carica due anni, ed alla cui elezione avevano diritto di partecipare tutti i lavoranti, ad eccezione delle donne. In quell'occasione si rilevò come si fossero "in Atripalda introdotti e perfezionati li panni ad uso di Siena, di Padua e saie di Venezia", e che vi si lavoravano pure "saie imperiali e saiette ad uso di Milano e della Costa". La natura di sviluppato centro commerciale ed industriale assunta da Atripalda spiega come e perchè nella vivace e progredita cittadina della valle del Sabato si stabilisse, nei primi decenni del '500, una piccola comunità di ebrei spagnoli, dediti al commercio ed al mercato del danaro. Convertitisi forzatamente al cattolicesimo per sfuggire all'espulsione dal regno decretata dal viceré Toledo ( 1541 ), e quindi assorbiti dalla popolazione locale, gli ebrei contribuirono ad imprimere una mentalità operosa ed imprenditoriale alla vita economica atripaldese. La presenza della corte principesca dei Caracciolo, non priva, specie nel '600, di pretese culturali e non aliena da un certo mecenatismo, affinò ed elevò il costume sociale e stimolò l'ingegno, e spesso le velleità, degli intellettuali atripaldesi, che vediamo raccolti, a metà del XVII secolo, nell'"Accademia degli Incerti". Molti, d'altro canto, furono gli atripaldesi che seguirono i Caracciolo nelle guerre di Fiandra e di Germania, dove alcuni si distinsero onorevolmente, come i capitani Tommaso de Cindolis e Tommaso Puzzillo contro gli svedesi a Nordlingen (1635), dove quest'ultimo cadde. La posizione dell'Università e dei cittadini di Atripalda non fu però mai di passiva soggezione ai pur potenti e prestigiosi Caracciolo. Le autonomie cittadine, infatti, avevano raggiunto già nella seconda metà del '400 un notevole livello di elaborazione e di sviluppo. Gli Orsini nel 1478, Giovanna d'Aragona nel 1497 e gli stessi Caracciolo nel 1596 avevano riconosciuto il crescente ruolo dell'Università, che si esprimeva nel possesso della "mastrodattia", dei proventi della giustizia civile e criminale, e della giurisdizione completa nei periodi delle fiere annuali di San Marco (24 aprile-I0 maggio) e di Santa Maria delle Grazie ( 1 °-10 luglio), durante le quali si svolgeva un attivissimo commercio interregionale. Nel 1598, inoltre, ponendo termine ad una lunga controversia avviata dal padre Domizio, Camillo Caracciolo concesse in perpetuo all'Università lo "jus prohibcndi" dei forni e della taverna, in cambio di 10.000 ducati in contanti e del canone annuo di 800 ducati. In pratica, quindi, i cittadini di Atripalda venivano ad essere così esentati da due dei più vessatori "diritti" feudali, acquisendo piena libertà di installare forni e taverne. Le condizioni fiscali degli atripaldesi erano poi notevolmente privilegiate rispetto a quelle degli abitanti dei centri vicini, in quanto tenuissimo era il peso della tassazione diretta ("fuocatico"), derivando l'Università un cospicuo gettito dai dazi di consumo ("gabelle") grazie alla sua prosperità commerciale. Chiuso e sostanzialmente oligarchico era il governo dell'Università, che veniva amministrata da 24 "decurioni", espressione per metà del ceto dei "civili" e per metà di quello dei "benestanti ed artigiani". Il sindaco e quattro "eletti"(= assessori) venivano nominati annualmente dai decurioni, che contemporaneamente si rinnovavano, designando ciascuno il proprio successore. Il '600 ed il 700 videro il sostanziale perpetuarsi, a livello economico-sociale, della situazione affermatasi nel '500, con la prosperità dei settori manifatturieri e delle attività commerciali, nonostante la generale e grave crisi recessiva della metà del secolo XVII. Un semplice episodio, destinato a non lasciare tracce durevoli, fu infatti costituito dall'adesione, più subita che convinta, di Atripalda alla rivolta antispagnola ed antifeudale del 1647-48. Nel dicembre 1647 la città, pressata dalle bande "popolari" di Paolo di Napoli, costrinse alla fuga Geronimo Della Marra ed il principe di Torella, che con forze esigue la presidiavano, aprendo le porte ai "popolari". Alla ribellione parteciparono gli stessi "bravi" posti a guardia del palazzo del principe. Nel maggio deiranno successivo Francesco Marino Caracciolo ristabilì il suo dominio su Atripalda, mettendo in opera una severa repressione contro i responsabili della rivolta. Neppure la peste del 1656 e l'inondazione del Sabato, nel settembre 1715, con la distruzione delle case lungo il fiume ed i gravi danni arrecati alle gualchiere, valsero ad inceppare durevolmente il meccanismo produttivo. Sintomi di appesantimento del ritmo e della qualità delle attività manifatturiere, almeno per quanto riguarda l'arte della lana, sono invece avvertibili negli ultimi decenni del '700. Le manifatture laniere, infatti, finiranno tra breve con l'essere travolte dalla massiccia concorrenza straniera, anche se vitali rimangono le attività siderurgiche e molitorie. Ingenti capitali, liberati dall'impiego nella fabbricazione e nel commercio dei panni-lana, si dirigono quindi sempre più intensamente verso l'investimento fondiario. Il vecchio "ceto civile", legato organicamente, oltre che all'esercizio delle professioni liberali, alle attività produttive e commerciali, assume sempre più il volto, che diverrà nettamente predominante nel secolo successivo, della borghesia della rendita e del possesso terriero. Fase, questa, di indubbia involuzione economico-sociale, ma che produce peraltro, insieme col parallelo aumento della popolazione, la completa messa a coltura dell'intero territorio agricolo atripaldese e la sempre maggiore qualificazione delle colture e del paesaggio agrario in senso intensivo. Scompaiono completamente, infatti, quei numerosi territori paludosi e macchiosi ancora oggi ricordati dalla toponomastica, ed in loro luogo si insediano le colture pregiate della vite, del nocciolo e dell'irriguo, come risulta con piena evidenza da questo prospetto, ricavato dal catasto napoleonico del 1810:

colture estensione % rendita %
Arborato seminatorio, seminativo
arborato, seminativo assoluto
31,77 35,13
irriguo, irriguo arborato 961 23,74
vigneto 30,38 22,12
selve fruttifere e ceduo boscoso 13,78 7,50
nocelleto 6,87 6,08
arborato irriguo cretoso,
incolto, padula
4,47 4,13
querceto 2,69 0,60
giardino 0,28 0,56
oliveto 0,16 0,09

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